Le "vasche notturne", i baci sotto gli archetti...la Chieti di ieri e di oggi che manca
Chieti non è mai mancata come oggi. Nemmeno ai fuori sede, nemmeno agli emigrati. Non mancava perché la sapevi lì, immota e stentorea, distesa tra la Trinità e San Giustino, tra De Luca e Bon Bon, il Vico e il Galiani e gli altri mille rivoli di questo placido torrente che è la città.
Vuota e laconica, a tratti, specie a certe ore, lo è sempre stata, intendiamoci. Ma quello era il vuoto materno, l'antro domestico del focolare, il buco del donut, in cui era dolce vagare alle ore strane, quando la città riprendeva fiato dopo le corse di studenti e lavoratori del giorno. In questi giorni non è più così, e per le strade non incontri più i volti noti. L'eterno signore che cammina a passi lenti con le mani dietro la schiena, il vigile giovane e dagli occhi buoni con i pollici perennemente alla cintura, i fascisti coi capelli rasati e i tatuaggi con le scritte in latino, i portatori d'eskimo coi jeans di marca, ma stracciati, i borghesi, i rider, i professori, i seminaristi e le schiere d'avvocati e dottoresse. Queste giornate si vedono solo occhi e mascherine, utili non solo per le note ragioni sanitarie, ma anche per celare un' inconfessabile paura.
Eppure Chieti è ancora lì, sono quelle le mattonelle delle strade e i mattoni dei palazzi, le insegne e i cartelli, eppure Chieti non è la stessa, tanto da domandarsi se la città sia fatta di muri e strada e non dei consueti personaggi che la popolano. Il corso non è più lo stesso senza l'incedere di don Ernesto che sgrana il suo rosario, la Villa non è la stessa senza i ragazzini che si rubano i baci sotto gli archetti, i bimbi che sciamano urlando in ogni dove, e i giovin signori che aperitiveggiano ai banchi della casina. Non è lo stesso Piano Sant'Angelo senza Palmiro e le stozze di mezzanotte, non è lo stesso il fontanone senza i diplomandi che ci si tuffano dentro all'ultimo giorno di scuola. Chieti ci manca negli occhi e ci manca in bocca, nei sapori cui la tradizione e le nuove leve della gastronomia teatina ci aveva abituato.
Da Tapaz le quasi omonime Tapas da via Tabassi ci portavano a spasso tra mari e terre del mondo in volo planare da un gazpacho andaluso e un babaganoush israeliano, per mano portati dalla cortese simpatia di Marco, Giada e il loro staff, tra tapas, salumi e vini del territorio, tutto a ritmo di Jazz e musica ispanica che coloravano il locale. Da Chartago, a porta Pescara, dove l'oste Davide e le due collaboratrici mescevano le serate, di birre scure, bionde, per tutti i gusti e latticini e insaccati gustosi rintracciati per tutto lo stivale, senza dimenticare il jamón serrano, seducente al bancone. Ci mancano i luoghi di ritrovo, epicentri di quella socialità che i nuovi locali, insieme agli intramontabili la Tavernetta, il Secolo, e gli indimenticabili altri, hanno con fatica costruito. Ci piacerebbe chiosare dicendo che manca poco e poi ci riabbracceremo, ma non sarà così.
Usciti dalla tempesta non saremo gli stessi che vi erano entrati e non lo sarà la città. Per ora si può solo stare chiusi dentro, aspettando che il fortunale passi. Si può solo auspicare che la ricostruzione, parola tradizionalmente dolente nella nostra regione, non sia solo demandata alle pur fondamentali istituzioni, ai bandi di gara, ai corsi e ricorsi d'una imperscrutabile burocrazia, ma passi piuttosto da un rinnovato, se non inedito, senso di comunità, che porti i consumatori a cercare di essere solidali con le botteghe e i negozi e meno con le catene di ipermercati. Di casa in strada, di libreria in chiesa, dagli ultras alle questure, dalle scuole alle fabbriche, dai parchi ai cantieri, passi la ricostruzione. Passi dal comprendere che una città è fatta da quegli uomini e donne dietro i banconi, dai camerieri delle locande, e dai librai, siano gli storici di De Luca o i nuovi come quelli della Libreria dei piccoli rimedi, dai fruttivendoli di piazza Malta o via Arniense, fino ai venditori di accendini e parcheggiatori abusivi di piazza Garibaldi.
Si rischia di scivolare nella retorica quando si pensa a quei personaggi e ai lavoratori, la cui distanza ci ha fatto sentire il pungolo della nostalgia per questa città che abbiamo avuto per le mani, di nonno in padre, di amore in amore, di giorno in giorno, fino a oggi. Ma la retorica è peccato minore rispetto all'indifferenza. Ricostruiamoci dunque, dal senso di comunità che passa dal non lasciare nessuno indietro e dall'andare insieme, tutti, al passo del più lento, in questa Chieti che si fa o si muore o ci si arrossano gli occhi a volerla ricordare.
Dario Conti