Il vino ponte di cultura e dialogo, all'Ateneo D'Annunzio la presentazione del volume "Il vino nella cultura e nella religione delle due sponde dell'Adriatico"
Un trade union fra cultura, politica, religione nella ricerca delle sinergie che costruiscono ponti tra genti e territori. Appena quattro lettere, due consonanti e due vocali: “vino”! Una parola magica per gli dei ma anche per i commerci e per le relazioni non solo enogastronomiche. E’ stata la bevanda più famosa del mondo a collocarsi al centro gravitazionale del convegno, indetto ieri nell’Auditorium del Rettorato dell’Università Gabriele D’Annunzio, sul tema “Il vino nella cultura e nella religione sulle due sponde dell’Adriatico”, che è pure il titolo del libro a cura di Ljiliana Banjanin [docente di lingua e letteratura serbo-croata Università di Torino], Andrijana Jusup Magazin [docente di letteratura italiana Università di Zara], Persida Lazarevic Di Giacomo [lingua e letteratura serbo-croata Università D’Annunzio], Rosanna Morabito [lingua e letteratura serbo-croata Università L’Orientale di Napoli], Svetlana Seatovic [primo ricercatore Istituto per la Letteratura e l’Arte di Belgrado], edizioni dell’Orso, pag. 328, 2022, per i tipi della Collana di Studi Interadriatici cui contribuiscono, oltre all’Ateneo D’Annunzio [con Persida Lazarevic], l’Università del Salento [con Monica Genesin] e l’Università degli Studi di Padova [con Egidio Ivetic]. Collegate via web con Londra le docenti della D’Annunzio Persida Lazarevic ed Elvira Diana del Dipartimento di Lingue, Letteratura e Culture Moderne, in trasferta per impegni accademici, prima delle relazioni di Lara Colangelo, sinologa e ricercatrice sempre del citato Dipartimento; Angelo Cichelli, Direttore della Scuola Superiore G. D’Annunzio; Francesco Berardi del Dipartimento Lettere, Arti e Scienze Sociali. Il tutto con la collaudata regia del giornalista teatino Stanislao Liberatore, per l’occasione moderatore dell’incontro ma anche co-autore del volume insieme ad altre ventidue prestigiose firme del settore. “Il vino”, spiega proprio Liberatore nel capitolo da lui curato sul Trebbiano e Montepulciano d’Abruzzo e sui ‘nettari pregiati della terra di Ovidio’, “è un fondamento storico del Mediterraneo, il segno maggiormente visibile e distintivo della civiltà fiorita nel primo millennio a.C. per opera dei greci e diffusa poi dall’impero romano”. Lo storico Polibio già nel III secolo a.c. decanta le qualità dell’Hadrianum, prodotto nell’ager Praetutianum [Atri], mentre nell’epoca augustea si colloca il bianco Trebulanum per così dire autorevolmente 'promosso' da Ovidio in persona “che descrive la natia area peligna”, continua Liberatore, “come ‘terra ferax Ceresis, multoque feracior uvae’”, ovvero ‘fertile di grano [in senso figurato, in relazione a Cerere, dea protettice dei raccolti, dunque del ‘frumentum’ e del pane, ndc] ed ancora più di uva’. Per l’inciso, l’illustrazione delle origini storiche, delle qualità organolettiche e della funzione sociale del Montepulciano d’Abruzzo e del Trebbiano arriva a fagiolo, anzi a “chicco” [d’uva, s’intende!], nella recente polemica innescata dall’infelice trailer, riguardante una commedia natalizia di prossima diffusione sulla piattaforma Netflix, del quale è stato protagonista Christian De Sica che, in una battuta prevista dal copione, aveva “bocciato” [ma questo è un eufemismo della irripetibile espressione testuale…] il vino abruzzese. Nessun richiamo diretto nel Convegno allo scivolone maldestro dell’attore romano il quale, come noto, è stato invitato a Chieti, dai giornalisti agroalimentari FNSI, in funzione distensiva e riparatrice, per la presentazione, al Marrucino il prossimo 22 dicembre, della 36ma edizione del calendario “Lunarjie”. Tuttavia, gli studenti e le studentesse presenti all’evento non hanno potuto verosimilmente fare a meno di ‘collegare’ storia e ricerca con l’attualità. Che poi era anche uno dei fini dei relatori, laddove il vino rappresenta una delle voci di maggior impatto sulla bilancia commerciale di Stati dai quali non ci si aspetterebbe una spiccata propensione al consumo di alcolici di larga diffusione e socialmente trasversali. “Pensate che in Cina”, così Lara Colangelo nel suo interessantissimo intervento, “il consumo di vino, nella storia di quel Paese a lungo frenato da quello elitario della grappa, è stato sdoganato fin dal 1892 con la nascita della China Vine Company, mentre dal 1949 il management governativo ha conferito nuovo impulso a questa politica di apertura che nel 2001 avrebbe portato la Repubblica Popolare Cinese ad entrare nella Federazione Mondiale del Commercio”. Dalle parole della giovane ricercatrice del Dipartimento di Lingue, Letteratura e Culture Moderne della D’Annunzio apprendiamo che la Cina [la relazione della Colangelo realizza una estensione territoriale verso oriente di quella sponda adriatica dalmato-balcanica nelle corde della pubblicazione, ndc] è il primo produttore mondiale d’uva, con oltre 600 aziende vinicole delle quali 40 di Stato, ed il sesto produttore e consumatore di vino. Per integrare i crescenti consumi, ed anche perché la qualità locale è ancora bassa, le Autorità si rivolgono all’importazione di vino dall’estero, nell’ordine da Francia, Cile ed Italia, mentre l’Australia fa qualche passo indietro tra i fornitori storici della Cina a causa dei dazi. “Il vino è amato dai cinesi che prediligono il ‘rosso’”, spiega Lara Colangelo, “sia perché questo colore è considerato propizio, sia per le presunte ragioni terapeutiche nella cura di alcune patologie quali caduta dei capelli, insonnia e dermatiti”. Insomma, bere vino fa bene, in tutti i sensi. Senza però esagerare. “Di certo”, come illustrato nel collegamento web da Elvira Diana e Persida Lazarevic, “segnali di apertura arrivano anche dalla società musulmana che ufficialmente continua a vietare il consumo di vino ritenendolo un peccato nonostante dal 750 al 1250 d.C. anche quei popoli celebrarono le proprietà delle bevanda nei trattati che elogiano la presenza di vigne nelle zone della mezzaluna fertile, la situazione attuale è che sono state licenziate alcune ‘fatwa’, in deroga del divieto assoluto, per effetto delle quali i lavoratori di fede musulmana impegnati nei processi di produzione e commercializzazione dei Paesi occidentali sono autorizzati a trattare uva e derivati ad esclusivo motivo della loro prestazione lavorativa”. Il convegno “Il vino nella cultura e nella religione sulle due sponde dell’Adriatico”, si è concluso con le relazioni di Angelo Cichelli [“I parametri della qualità di un vino”] e Francesco Berardi [“Il vino tra le due sponde dell’Adriatico: evidenze antiche”].