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Cronaca

Giovane morta di anoressia, la Asl si difende: "Non abbiamo rifiutato le cure"

Il direttore sanitario Orsatti precisa che Maria Elena è sempre stata seguita dal Centro di salute mentale, ma la struttura scelta dalla famiglia per le cure sforava il budget giornaliero consentito dall'azienda, che aveva chiesto una documentazione per indicare l'indispensabilità del ricovero proprio in quel centro

La Asl di Chieti si difende dalle accuse della famiglia di Maria Elena, la giovane teatina morta il 1° agosto scorso, a 26 anni, dopo una dura e lunga lotta contro l'anoressia. Sulla stampa, il fratello Alessandro Pomipili aveva accusato l'azienda sanitaria di non aver consentito alla ragazza di continuare a curarsi fuori regione, in un centro specializzato in Toscana. 

Rispettando la delicatezza del caso e il dolore della famiglia, il direttore sanitario della Asl Vincenzo Orsatti, smentisce una presunta negligenza dell'azienda sanitaria, puntualizzando:

Non corrisponde al vero l’accusa secondo cui la giovane donna di Chieti affetta da anoressia sia morta nell’indifferenza o, peggio ancora, per colpa della nostra azienda che le avrebbe negato le cure.

Orsatti ricostruisce le vicende sanitarie di Maria Elena, malata di anoressia dall'età di 13 anni: 

Dopo essersi rivolta al nostro Centro di salute mentale, la ragazza ha seguito un percorso riabilitativo, autorizzato e pagato dalla Asl, in una struttura della Toscana. All’aggravarsi delle sue condizioni fisiche, si era reso necessario un ricovero in un ospedale toscano, dove le erano state riscontrate alterazioni metaboliche che ne modificavano il profilo assistenziale: in sostanza, era emersa la necessità che fosse seguita in una struttura a vocazione clinica, più che riabilitativa.

Tornata in Abruzzo, ha avuto nuovamente bisogno di un ricovero nell’ospedale di Chieti. Una volta dimessa, è stata seguita con un articolato programma di assistenza domiciliare che prevedeva anche la nutrizione artificiale. Tutto questo mentre il Centro di salute mentale di Chieti era alla ricerca della struttura più appropriata, dopo che la famiglia aveva rifiutato un centro locale specializzato nella cura dei disturbi dell’alimentazione, autorizzato e accreditato.

Sul fronte economico, il direttore sanitario della Asl spiega che l'azienda ha un budget ben preciso per il ricovero in strutture specializzate fuori regione, che ammonta a 210 euro giornaliere. La struttura scelta dalla famiglia, però, ne richiedeva 279

una cifra di gran lunga superiore al tetto consentito per fare fronte alla quale la Asl aveva chiesto una documentazione che attestasse l’indispensabilità del ricorso a quel centro. Come noto, il corretto utilizzo delle risorse economiche a disposizione è un preciso obbligo dell’azienda, che ne risponde davanti alla magistratura contabile.

Pertanto, pur avendo il massimo rispetto per la vicenda e per il dolore dei familiari, non possiamo accettare di essere stati inerti, indifferenti o colpevoli rispetto a quanto è accaduto. Né può essere addebitato come colpa all’azienda il fatto di avere chiesto doverosamente di documentare, sotto il profilo clinico, la necessità di un ricovero più costoso fuori regione.

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